mercoledì 27 febbraio 2013

Un altro fottuto tramonto.


Ci sono giornate come questa in cui lo odio, il mare.
Quando l’inverno sta per finire.
L’inverno qui dura poco, un mese neanche, eppure pesa, uh se pesa. In quel mese respiro la mestizia delle giornate inutili, la solitudine del sopravvissuto, il rimpianto della velocità. Mi dà fastidio la sensazione di stallo, il lungomare deserto, i locali chiusi per ferie, le passeggiate meditative sulla spiaggia, persino i tramonti, tutti uguali.
Talmente tutti uguali che non ci vado neanche più a vederlo il tramonto, tanto cosa ci vado a fare. Mai una volta che boh, arrivo alla rotonda di Torre del Lago e il cielo è bigio, stagno, compatto, informe.
No, nessuna sorpresa, il tramonto qui è sempre meraviglioso.
Così penso che palle, un altro fottuto tramonto in riva al mare, perché l’inverno fa sembrare che qui, a parte il tramonto sul mare, non è che ci sia poi molto altro.
L’inverno fa venire voglia di scappare, non mi ci frega più un altro inverno qui, penso, se non fossi in questo posto dimenticato dall’attività professionale e dalle iniziative potrei fare cose e vedere gente, e mi prende la melanconia urbana, la voglia della linea 3 e della frenesia alla cassa del cinema.
Poi arriva una giornata come questa, anticipazione del mutamento.
Allora ricordo che esistono altre stagioni, rispolvero i vecchi paragoni, in città la primavera non ha profumo, penso, e l’estate sa di asfalto caldo e condizionatori a palla.
Tornano alla mente le pause pranzo di maggio sulla riva al mare, l’odore del camuciolo che sale dalla sabbia calda di mezzogiorno, le telefonate a spregio agli amici metropolitani passeggiando tra le dune, le birrette all’uscita dell’ufficio bevute osservando i bagnini che pettinano la spiaggia. Ringalluzzisco, dimenticando la mestizia delle giornate inutili e la solitudine del sopravvissuto, riprendo a sorridere.
In giornate come questa odio il mare che trasforma la mestizia in promessa di felicità e la solitudine in aspettativa del domani. Il mare non lascia mai in pace, sembra messo lì apposta per portar scompiglio.
Vivere qui, a Torre del Lago, mi fa sentire come Ulisse a Ogigia, prigioniero di un sogno.

martedì 26 febbraio 2013

Dentro e fuori

Vip Cabin - Alpha 76' Flybridge - Luiz De Basto
Mi piace disegnare gli interni degli yachts.
Quando disegno l’interno di uno yacht posso dimenticarmi di quello che c’è fuori; devo tener conto di struttura, scafo e sovrastruttura che forniscono l'unico limite da rispettare ma dentro tutto il resto è libertà.

Non mi interessano le finestrature, il vetro si può serigrafare fino a far scomparire il dentro; le compartimentazioni sono libere da vincoli e i mobili possono occupare la murata come torna meglio. Mi dimentico l’ortogonalità e sfrutto le potenzialità. Però ogni angolo, ogni buco, ogni vuoto nello scafo o nella sovrastruttura diventa spazio da riempire con impianti o con oggetti. Non separo mai le tre dimensioni e mantengo sempre una prospettiva tridimensionale, però ogni centimetro verso la prua mi porta a nuove difficoltà.

Il centimetro è unità di misura troppo grande, lavoro in millimetri e anche trenta millimetri guadagnati risolvono un problema.

Di tutto questo dentro, fuori non c’è traccia. Lo yacht, fuori, è come se non avesse un dentro.

In architettura è diverso, ciò che è dentro esce e ciò che è fuori entra. La facciata diventa pelle che si modifica secondo le funzioni interne e i flussi che deve accogliere. Un tramezzo non può arrivare su una finestra, o sposto il tramezzo o sposto la finestra o rimetto tutto in discussione. A volte ciò che è dentro si disciplina e si ordina sulla base di ciò che è fuori, altre volte il fuori disegna il dentro. A volte il dentro spinge il fuori anche volumetricamente, come quando all’ottavo mese di gravidanza il bimbo pianta un piede sotto il costato e wow! se ne vede chiaramente la forma da fuori, attraverso la maglietta.

L’edificio è un organismo e a me piace chiamarlo corpo di fabbrica.

Gli yachts invece no. Negli yachts il fuori deve navigare, il dentro serve per stare. Due funzioni, due leggi separate.

In questo modo il dentro diventa un luogo altro, uno spazio organizzato secondo principi propri. Un nido indifferente a tutto quello che passa fuori, un luogo sicuro statico rispetto al fuori in perenne movimento.

Il mio ambiente preferito e il più odiato è la cabina di prua, la più difficile da disegnare. Lo scafo si restringe repentinamente, la chiglia si alza. Il dentro deve fare sforzi enormi per non mostrare il fuori e non mostrarsi da fuori. Il letto si appoggia direttamente alla struttura, gli armadi diventano grandi all’esterno e piccoli all’interno, il prospetto a murata diventa una scenografia, perché anche se c’è solo un oblò piccolo piccolo bisogna per coerenza di stile disegnare il box della finestra, che infatti si chiama teatro. Un teatro con veneziane e tende per l’oscuramento e senza neanche una fonte di luce da oscurare.

Io ho sempre odiato gli yachts e non mi ha mai interessato passarci del tempo. Ma ecco, ora che fanno parte del mio lavoro comincio a pensare che non mi dispiacerebbe dormire in quei nidi accoglienti, indifferenti agli eventi, in cui il fuori non entra se non con un impercettibile rollìo, e dove è permesso ogni tanto uscire fuori per osservare lo spettacolo del grande mare sul quale ti stai muovendo.

Ringrazio Luiz che gentilmente mi ha concesso l'uso dell'immagine.

mercoledì 13 febbraio 2013

Il negozio degli errori.



Liberarsi del superfluo. Questa è la spinta che mi viene dal mondo e del superfluo io vado liberandomi. Giochi in scatole ancora intonse per il non-uso, strenne natalizie ininteressanti, vestiti immacolati frutto di regali sbagliati o di acquisti sventati. Oggetti che occupano spazio in casa e nella memoria.
Mi libero del superfluo, lo porto in un negozio dell’usato.
In questo negozio vendono usato non-usato, è una vetrina di oggetti acquistati o regalati per errore, è il negozio degli oggetti sbagliati. Chi entra qui lo fa per liberarsi dei propri o degli altrui errori e lo fa con il lieve senso di vergogna che l’ammissione dell’errore comporta.
“Questo era per il battesimo, l’ha indossato una sola volta”.
“Svuotavo l’armadio ed è saltato fuori questo. E’ ancora nella busta, non lo ricordavo nemmeno più”.
La ragazza osserva il capo, controlla la confezione, verifica la taglia. Cataloga l’errore con occhio esperto e gli attribuisce una quotazione.
“Questo è di marca, lo vendo subito, 65 euro. Questo è difettato, lo metto a 5. Questo non lo vuole nessuno, vedi: ha una macchia qui”.
La ragazza lo sa, capisce cosa va e cosa no; anche nell’errore esiste una gerarchia di valori. Quindi l’errore macroscopico si vende, l’errore piccolo, la distrazione con una macchia, no.
La ragazza si dice stupita; chi viene a comprare i vestiti da lei lo fa perché può permettersi giusto questo, cioè l’errore degli altri. Ma chi entra qui non vuole disvelare la fonte, l’errore non ammette macchia, l’errore acquistato di seconda mano deve essere vergine, un perfetto errore.
Solo attraverso la perfezione, l’errore perde la sua caratteristica originaria e il suo acquisto non dà più vergogna.
Così questo è il negozio dove solo i perfetti errori guadagnano una vetrina, per gli altri, gli errori a metà, non resta che il bidone giallo della Caritas.

martedì 5 febbraio 2013

L’amore è una favola.

Ha le spalle da uomo, il collo da uomo e la mascella da uomo, ma le dita lunghe e le unghie laccate bordeaux, perfette. I lineamenti tirati dalla coda da cavallo, mi guarda attraverso occhiali da sole, come io guardo lei, strizzando gli occhi perché è controluce. Il mio cane sta annusando la natura a una cagna festosa, poi nell’entusiasmo decide di pisciare proprio qui, ai piedi di questa donna con le unghie bordeaux. Tiro il guinzaglio per farlo smettere e mi scuso con lei.
“Lascialo, não è nada”.
Ha la voce modulata da donna dei desideri, talmente delicata che ci sorridiamo e abbasso il mio tono anch’io. Si appoggia allo steccato in legno, mettendosi in posa.
“È masculino, vero? Quando vedono femmine, todos os masculinos fanno questo”, io penso intenda scondinzolano festosi annussando la natura femminile, e non pisciano ai loro piedi.
“Aspetti?” le chiedo, inopportuna o impertinente, ma la domanda è uscita per conto suo.
“O meu fidanzato lavora” facendo un gesto con la mano per dire è da qualche parte, arriverà “estou aqui, eu gosto do sol”.
Non ha segni della barba, le labbra sono disegnate senza eccesso e ha un sorriso dolce; non si è offesa per la domanda, per alcuni secondi guarda il cane con simpatia poi solleva lo sguardo verso la macchina che sta accostando e si alza staccandosi dallo steccato.
Mi saluta con un cenno della mano, facendo danzare le unghie laccate. Raggiunge la macchina, appoggia i gomiti alla portiera e infila la testa dentro l’abitacolo attraverso il finestrino aperto, poi si decide ed entra, sedendosi con grazia anche se sarà alta un metro e novanta.
La macchina riparte, non vedo se si sono baciati, ma vedo l’adesivo attaccato sul lunotto: “L’amore è una favola”.

venerdì 1 febbraio 2013

Donne.


L. ha un modo di fare nervoso e il fisico di conseguenza. Fuma aggrappandosi alla sigaretta e finisce le frasi mentre se ne va. E’ una di quelle tipe che solo per il fatto che ti salutano ti fa sentire speciale. Ha un marito disoccupato, due ragazzine deliziose e una sorella in ospedale da quest’estate, quattro mesi in coma, si è risvegliata un paio di mesi fa. La fase di recupero è la più dura, L. lo sa bene, sta con lei prima di entrare al lavoro e dopo aver preso le figlie a scuola. Le tocca insegnarle di nuovo a vivere.
V. è una stronza di prima categoria, ha un figlio insopportabile che tra un paio d’anni sarà da comunità di recupero. E’ lo stereotipo della cafona, mi chiedo se abbia conosciuto suo marito a Uomini e donne, e mi rispondo di no, solo perché persino in televisione fanno una certa selezione.
C. viene da lontano e parla perfettamente l’italiano. Ha una bimba con gli occhi da principessa e un marito innamorato; mi ha regalato cinque uova delle sue galline, una manciata delle sue spezie e mi ha spiegato come si cucina lo stufato, al suo paese.
G. aveva un negozio che ha dovuto chiudere, allora ne ha aperto un altro e ora vende vestiti usati. Hanno provato, lei e la cognata, ed è andata bene. La cognata assomiglia tantissimo a Rossy De Palma e dice sempre che vuole partecipare a Miss Trans, almeno è sicura di vincere.
E. è allegra per dna, non c’è verso di vederla arrabbiata. Ha una parola simpatica per tutte e un figlio per ogni uomo che ha avuto; ad ognuno dei suoi figli ha regalato un nome improbabile, una buona dose di senso dell’umorismo e una spiccata avversione alle regole.
N. non ne voleva più di figli, perché i primi due erano nati speciali. Così quando è rimasta incinta ci ha pensato qualche secondo, poi si è detta proviamo di nuovo e ora si sorprende del nuovo venuto ogni minuto, perché è speciale pure lui, come tutti i figli.
T. fa la psicologa e due figli grandi, ormai. Ha occhi vispi, la gestualità da attrice e un tono di voce rassicurante; spesso si chiede com’è che anche tra chi ha le carte giuste ci sia qualcuno che non sappia giocare mani vincenti. Così aiuta a vedere il gioco, non sopporta le occasioni sprecate.