venerdì 25 gennaio 2013

Dove vive l'arte.



La prima cosa che vedo è una coppia di gigantesche ali grigie richiuse su se stesse, in attesa. Il primo odore che m’arriva è quello del ferro incandescente che scalda l’aria che respiro.
La prima reazione che mi monta è un nodo alla gola, poi un moto di stizza perchè questa mattina c’è una brutta luce e le foto non verranno, poi mi sale il sorriso, poi mi viene da ridere forte. Dentro l’hangar le altre ali sono già montate e colorate e quello che ho davanti è uno spettacolo magnifico. Le macchine moventi del Carnevale sono in costruzione, ci quasi siamo, il primo corso è vicino.
La grande piazza della Cittadella è un laboratorio a cielo aperto, un’officina della meraviglia fuori scala.
Uomini e donne con scarpe rinforzate e tute da lavoro, un movimento continuo di ferri, strutture, colossi e trattori. E tanta arte indaffarata a saldare, incollare, montare e aerografare.
Gli hangar sono aperti al pubblico, così passeggio tra le putrelle, osservo i giganti e domando. Gli artisti sono gentili, mi permettono di fotografare i carri ma non di farsi fotografare, non hanno voglia di apparire. Stanno lì con le mani nella colla o sul saldatore, con la maschera sul viso a proteggersi dalle scintille.
Sono timidi, ma orgogliosi del proprio lavoro: “fotografa pure ma senza entrare, è pericoloso” e si scostano, mannaggia, proprio mentre scatto ché non vogliono rovinarmi la foto, “non mi fotografa’ che son brutto”.
Guardano i bozzetti appesi alle pareti e mi sembra incredibile che da un disegno così piccino ne esca un’opera così grande, e sì che sono architetto, dovrei esserci abituata.
Non capiscono che sono loro, con le loro mani abili malgrado le dita ghiacciate, il vero spettacolo di questa cittadella. Sono loro, i carristi, a dare la dimensione a quello che sto vedendo e restituiscono la scala reale all’evento in allestimento. Artisti, artigiani e operai, che creano la più grande macchina da spettacolo di questa città. Il corso dei carri.
Se veder sfilare i carri in passeggiata è uno spettacolo impressionante, vederli costruire è la misura dell’abilità dell’uomo e guardare queste mani che lavorano è scoprire quanta arte può vivere fra le dita. 
le foto della Cittadella le trovate qui 

giovedì 24 gennaio 2013

Di lavoro voglio fare


Di lavoro voglio fare lo scaricatore di spam, l’agente immobile, il constatatore amichevole, il degustatore di correzioni, il procacciatore di guai, l’intervistato indeciso, l’osservatore parziale, il navigatore satellitare solitario, il consumatore disutile, il ricercatore di distrazioni, l’attivista di ipotesi, il testimone della staffetta, la voce fuori campo, il turista immaginario, il turista immaginato, il killer prezzemolato, l’utente di sofisticazioni, l’esente, il designer di reti da pesca, la rassegnata stampante, l’utente di CUP, l’INAILabile, l’assicurato rassicurato, l’indicatore di pagliuzze, il sarto di idee, il saltatore di pali e frasche, l’esploratore di boschi e di riviere, la donna mobile, il reus ex machina, il differenziale, l’analista di analogie, l’oracolo, le indagini al mercato, il desigillatore, il consulente ai quattro cantoni, l’anestetista, il posatore di pietre su.

sabato 19 gennaio 2013

Il Festival Circus


Oggi fa freddo, tira vento e piove una pioggia che vorrebbe essere neve ma proprio non ce la fa. Stanno smontando il circo; non so se ci sono immagini più forti di un circo in partenza, per evocare il concetto della festa finita, anzi mi sa che non ce n’è.

Hanno cominciato ieri a tirare giù il tendone e prima, quando sono passata, i camion erano in fila quasi pronti. La direttrice fumava, stretta nella giacca a vento e con le galosce che scivolano nel fango, guardava smontare gli ultimi tralicci, quelli che sostenevano le luci e il trapezio.

Avevano anche fatto delle repliche, ché lo spettacolo era piaciuto. Ma infatti è proprio un bello spettacolo avevo pensato io, uscita dalla prima venerdì scorso. Poi è un circo etico, niente animali; è uno di quei piccoli circhi che girano come una trottola e dove tutti fanno tutto.

All’accoglienza giovani Sandokan in livrea, però senza barba; mostrano dignitosi il posto assegnato con un gesto del braccio che sprigiona un leggero odore di sudore dall’unica divisa usata chissà quante volte prima di esser lavata. La direttrice sta alla biglietteria insieme alla trapezista, l’acrobata al bar insieme al clown, in una sarabanda di nazionalità.

Poi calano le luci e diventano re.

Gli acrobati, i clown, i giocolieri, la trapezista e il mago. Re dello spettacolo, con la dignità cucita addosso da quei costumi pacchiani di lustrini e dall’espressione concentrata sul sorriso di scena. Volando sul trapezio o sulla tela bianca, ballando con i cerchi che scorrono addosso, sempre uno in più, lanciando le clavette per riprenderle a tempo di musica, spetazzando con la trombetta, sparendo nel baule.

Per ogni numero c'è un verso di stupore o una risata sincera dai bambini sulle gradinate. Perché ai bambini piace proprio andare al circo; già alla biglietteria fremono d’impazienza, anzi già fremono nel vedere il tendone venir su dal nulla. Di fronte a quel tendone cominciano a immaginare, ipotizzare di alzarsi in volo o lanciare coltelli. Per questo vado volentieri al Circo, perché 6 euro in fondo son poca cosa, per mantenere vivo un sogno, anche se poi il sogno leva le tende e se ne va.

giovedì 17 gennaio 2013

L'ape incosciente #2 con i Gatti Mézzi

L'òmini ar semaforo



Mi scaccolo ar semafero
e poi mirando ‘r cofano
m’accorgo della mòra sulla Gorf.
Lei dar su’ specchio guarda me
cor piede pronto a ccedere
un dito di frizione per partì’.
Chissà poi cosa mi dirà
se un piede io ‘ni stioccherò
fra ‘ su’ pedali prima der rondò.
Prillando la mi’ caccola
ar prossimo semafero
un freno a mmano a quattro mani proporrò,
se s’accorgesse ‘r vigile
che ho ‘r piede pòo stabile
probabirmente non la rivedrò.
Lei sarà già lontana
e un rïordo di sottana
cor pizzo di caccole terrò.
Di solito noi òmini
fermandoci a’ semaferi
ci s’ha ‘npopo’ paura d’invecchià’
guardandoci allo specchio
per quer capello bianco
che fra l’arancione e ‘r rosso sortirà’.
Guardando ‘r su bèr cofano
m’accorgo di ‘ver rèfolo
e ‘na fumata bianca viene ‘n su.
Sorpasso da faocero
e poi accostando ar pratano
‘ni faccio un cenno e vado ad aiutà’.
Mi spiace signorina
‘vi ss’è ttutto strinato
vedrà che c’è un pistone da ccambià’
se vvòle signorina
potrebbe approfittare
der mio pistone nòvo per tornà’.
Di solito noi òmini
guardando dentr’ ai cofani
si vòle da’ a d’intende’ di ‘apì’.
Le donne non son cofani
da spalancà’ a’ semaferi
se la temperatura salirà


Grazie ai Gatti Mézzi per il permesso e la santa pazienza

mercoledì 16 gennaio 2013

Vincenzina e la fabbrica



La ragazza sta spiegando alla signora come compilare il modulo: qui la firma, qui il documento di identità, qui comune di iscrizione alle liste elettorali. Sono sedute al tavolo della terrazza della pasticceria, la signora tiene un’MS tra le dita rugose mentre scrive i suoi dati e la ragazza allontana con la mano il fumo che le arrossa gli occhi chiari, indicando i campi vuoti.
Io l’avevo capito che era qualcosa di elettorale ed ero lì lì per chiedere, ché mi piace partecipare, ma c’è chi mi precede.
“Non è un voto, è solo un sostegno ad una persona. Mio cognato, il marito di Vincenzina, si candida al Senato”. Che bello, ci sono ancora persone che si chiamano Vincenzina.
“Io voto Berlusconi”. Ecco, così mi tocca guardare bene chi è che parla. Una vecchia, mi si permetta il termine, con il turbante di lana, gli occhiali da miope, il cappotto con il collo di pelliccia e la voce roca da fumatrice accanita. “Perché ha detto che toglie l’IMU”.
“Infatti mio cognato si presenta con lui e lo voto anch’io”
Mi sarebbe anche stata simpatica la ragazza, ha un bel modo di fare, gli occhi vispi e un lieve accento napoletano che mi aveva già fatto immaginare storie di decisioni sofferte e traslochi euforici e attivismo equosolidale, e magari sarei tornata a bere il caffè nel suo bar qualche altra volta nelle mie peregrinazioni.
E invece fanculo, mi si permetta il termine. Ho pochi soldi ma scelgo come mi spendo, e questi sono gli ultimi 80 cent che passeranno dalle tasche della mia giacca alla cassa di questa pasticceria, e fischietto Vincenzina e la fabbrica, che mi ha sempre fatto venire la mestizia, ma oggi la fischio con orgoglio.

venerdì 11 gennaio 2013

I luoghi comuni esistono.



Un jeeppone tira lungo sullo stop e inchioda dopo l’incrocio. Scende un Briatore in moncler e “TU DEVI ANDARE PIANO” urla al suv miracolato dal mancato schianto, che riparte umiliato. Lascia la macchina sul parcheggio del disabile e varca la porta del bar “Il Giardino”.
Pavimento in resina e pareti in cemento lisciato, colonne rosso porpora con capitelli oro, appliques di design, soffitto con travi a vista, lampadario in metallo trasforato. Signore con lunga coda brizzolata in fermagli di bigiotteria, doposci ai piedi, assorte nella lettura quotidiana. Vetrina con esposizione di brioches d’autore e sandwiches da blog culinario. Mi sembra di entrare in un cinepanettone.
Faccio il mio ordine accanto a un istruttore di qualcosa, lampadato e in tuta high cost. Una anziana Barbie modello Cortina Da’n’pezzo ringrazia il bartender in livrea verde per aver ritrovato il suo portachiavi, dal quale pendono quattro orsetti gamgam style.
Dunque è vero, i luoghi comuni esistono, e a Forte dei Marmi vengono davvero a svernare anziane signore provenienti da un pianeta in cui i vecchi Ken fatturano consulenze dalla poltrona del soggiorno di città, godendosi la pensione, mentre le vecchie Barbie vestono Prada e leggono il giornale in doposci al caffè “il Giardino”.
Questo è l’anno delle epifanie per me e mi appunto sul quaderno mentale: la prossima volta che nasci ricordati di nascere ricca.
Il caffè è buono e costa 30 cent in più rispetto al resto di questo mondo; lascio il Giardino, la piazza griffata, il jeeppone arrogante e vado a sostituire il mio bigliettino per la sosta gratuita, che se mi tanano mi massacrano di verbali. 15 minuti sono gratis, in centro a Forte, ma solo 15; un’ora costa due euro, il doppio rispetto al resto di questo mondo.
Attraverso il lungomare e m’allungo verso il pontile che s’allunga sul mare, annotando i suoni dell’acqua mentre procedo: le fontane baldanzose, le onde infrante, la quiete del mare aperto.
In cima al pontile un gruppo di pescatori e pensionati, però quelli di questo mondo. Guardano le reti, guardano i secchi, guardano il mare. Ho preso la chitarra, chi canta è il mio cuore cantano in coro organizzato, con solista e accompagnamento a cappella, perchè “oggi” dicono “tanto valeva stare a casa”. Non parlano il fortemarmino, i pescatori e i pensionati di questo mondo, ma quercetino, anzi guergetino.
A Forte dei Marmi si parla milanese, romano, fiorentino, al limite inglese o meglio ancora russo; non esiste una lingua di Forte dei Marmi, perché, ne sono quasi sicura, Forte dei Marmi non esiste.