giovedì 17 maggio 2012

Alla velocità delle carrozze

Nelle fabbriche, nelle campagne e nei cantieri si muore per incidenti sul lavoro.
I lavoratori sono discriminati per sesso, religione, provenienza sociale e geografica.
I bambini delle classi più povere e degli immigrati sono sfruttati con il lavoro nero.
Alcune categorie di lavoratori godono di totale assenza di tutela.
Nessuna possibilità di programmazione del futuro.
La popolazione si concentra nelle aree urbane per sfruttare le economie di scala, dando luogo a forti fenomeni di migrazione interna con tutto quello che ne consegue.
La città si organizza nel pieno rispetto della politica del laisez-faire e la speculazione copre interi settori urbani con la lunga mano degli interesi economici leciti o meno, sfruttando vuoti normativi e ritardi di gestione.
Negli ospedali si muore per operazioni di routine.
Il diritto allo studio non è garantito.
Nessun rispetto per l'ambiente.
Gli interessi privati modellano le scelte pubbliche.
La propaganda si traveste da informazione.
L'architettura si fa di regime.
La cultura accademica si ferma a guardare. 

Che nelle città si viaggi alla velocità della carrozza non mi sembra l'unico paragone possibile con la fine del '700.

domenica 13 maggio 2012

Maggio

Le acacie sono alberi stupidi, sono piantacce. Sono infestanti, fanno un’ombra idiota, hanno pure le spine.
Probabilmente Stefano non aveva mai perdonato alla acacie di aver invaso la pista da cross sulla quale si cimentava almeno 15 anni prima, un paio di riporti di terra che le ruote delle bici avevano modellato fino a farlo diventare un percorso avventuroso, teatro delle sfide di coraggio con gli amici del Gallaratese all’uscita di scuola.

Le acacie crescono velocemente, si diffondono in un attimo invadendo il bosco, hanno un legno morbido che non puoi usare per fare mobili né travi o assi, ma puoi solo bruciare nel camino. Non mi ci mettere solo l’acacia, dammi anche un po’ di castagno o di ulivo, altrimenti non mi dura nulla questo carico, quando ordini la legna per l’inverno. Se hai una acaciaia ti rende poco, pure il valore catastale è scarso; non te lo pagano molto il taglio, perché brucia in fretta e sviluppa poco calore.

Ora i loro rami fioriti ronzano per le api attratte dall’odore intenso e dai grappoli pesanti, e le loro chiome si mostrano chiaramente da lontano, come bianche nuvole gonfie tra le mille sfumature di verde e argento delle farnie, dei pini e dei lecci. Ora il vento profuma di acacia e annusandolo non mi sembra affatto che siano alberi stupidi. Per lo meno non adesso, con questo sole e con questa arietta fina.

sabato 12 maggio 2012

Montevarchi

Le relazioni nascono quando meno te l’aspetti da simpatie impreviste, sguardi complici infinitesimi o semplici proiezioni mentali; anche quando pensi che sia una sensazione tutta tua e il più delle volte non lo è.
 
Con Annalisa è andata così. Ci osservavamo in attesa delle rispettive figlie, con il piedino che batteva per la fretta di correre a cucinare perchè è tardi e domani vi dovete svegliare presto che c’è la scuola, con la stessa rassegnata frenesia.
Quando si è trattato di organizzare le macchine per la gara in trasferta a Montevarchi ci siamo messe d’accordo senza esitazioni. Alle 6 e mezza alla pasticceria a Torre del Lago, non ti preoccupare, guido io, che mi piace guidare in autostrada; alle 6 e mezza per fare colazione, che io non mi ripiglio se non prendo il cappuccino, ed era perfetto anche per lei.
Sono arrivata addirittura in orario, tanta era la voglia di questo viaggio in macchina da amiche novelle.
E mentre le ragazze dietro si organizzavano e giocavano a nascondino immaginario -ora tocca a voi indovinare dove mi nasconderei in questa macchina se fossi piccola come un minimeo- io e Annalisa ci raccontavamo.
Musica, panni da lavare, aperitivi che ci piacerebbe ma che non prendiamo, lunedì portiamo le scarpe e si va a correre insieme, minchia non lo dire a me, che palle farle fare i compiti al sabato mattina.
Con gli occhi fissi sulla strada che scorreva e al contachilometri che mi ci manca giusto una multa per eccesso di velocità, con le orecchie alle chiacchiere e ai cd, con il sorriso rilassato per i minuti rubati alla normalità. Propositi di viaggio, che Collodi è qui a un passo e il parco di Pinocchio l’ha fatto Zanuso, o Baratti, che come sarà bella la spiaggia di Baratti con la pineta dietro e le docce pubbliche e quel baracchino che vorrei tanto prendere in gestione. E poi memorie di film.
“Perchè, pane e tulipani com’era? Quando lei esce dall’autogrill e non vede più la macchina”
Liberatorio, catartico, immaginare scenari improvvisamente differenti, catastrofi indolori che ti fanno svoltare l’angolo e ti portano in un mondo nuovo. La dimensione del viaggio in macchina è così, sei ferma nella tua navicella da cui osservi la terra, mentre il tempo e lo spazio si muovono in un modo altro. Parti da A per arrivare a B, nel mezzo una X fatta di attesa.
Alla fine siamo atterrate a Montevarchi; per arrivare al palazzetto dello sport si attraversa una zona di margine, con uffici e megastore, e arrivarci di domenica vuol dire non trovare nemmeno un bar per il caffè.
La gara è stata una maratona da incubo, mi veniva in mente solo un titolo ripescato dalla memoria: “non si uccidono così anche i cavalli?”; quando mi ha telefonato mia madre non ho neanche detto pronto, ma ho cominciato a cantare “senza fine, senza un attimo di respiro”, provocandole una crisi di ilarità irrefrenabile per la quale ha riso 4 minuti buoni prima di riuscire a dirmi: dunque non è ancora finita.
La merenda sulla riva del fiume ha confermato la totale inutilità di Montevarchi, neanche il fiume riesce ad essere un buon posto. Cartoni della pizza, lattine, cicche di canne e bottiglie di birra lasciati dai ragazzi la sera o portati dalla corrente, fango e rami secchi.
All’affannosa ricerca di un bagno e di un caffè ci siamo fermate nell’unico locale aperto, una sala di videopoker dove non avrei neanche fatto alzare la zampa a quell’idiota di Bravocane, figurarsi se facevo una sosta tattica prima dell’autostrada.
Il viaggio di ritorno è stato più silenzioso, le ragazze litigavano per la stanchezza e l’uggia, io e Annalisa già pensavamo alla cena da preparare, alla doccia da fare, al lunedì da affrontare.
Le ho lasciate all’angolo della pasticceria, con un saluto frettoloso e uno sguardo allo specchietto.

Ieri ci siamo riviste, era da un pochino che per un motivo o l’altro non ci si beccava fuori dalla palestra.
Ieri era venerdì e nessuna delle due aveva voglia di correre a casa, così abbiamo lasciato giocare le ragazze nel parco, e simulato l’aperitivo che non ci siamo ancora concesse, finchè un paio di telefonate non ci hanno ricondotte all’ordine.
Comunque avevamo entrambe messo le scarpe in macchina, dopo la trasferta a Montevarchi: lunedì si corre, o per lo meno si fanno due chiacchiere.

martedì 1 maggio 2012

Sull'architettura, un po'

L’architettura è tra le arti quella maggiormente rimaneggiata, o meglio quella che subisce il maggior numero di rivisitazioni nel corso della sua storia. Questo per la sua natura, quella cioè di non-arte. Una “fabbrica” deve stare in piedi, deve assolvere una funzione e deve dire qualcosa.
La fabbrica nel tempo va deteriorandosi e quindi è oggetto di manutenzione (deve stare in piedi), di ristrutturazione o restauro (deve assolvere una nuova funzione), di restiling (deve dire qualcosa).
E questo è nella normalità delle cose, si rifanno continuamente facciate degli edifici, si ristrutturano appartamenti o interi palazzi, si immettono nuovi impianti urbani.
Ciò che noi vediamo oggi dell’architettura storica è il frutto di questo processo continuo di rimaneggiamento della fabbrica. Il colore è il primo a partire ed è uno degli elementi dell’architettura che maggiormente subisce l’idea di “originale” comunemente condivisa: il bianco non è il colore dell’architettura rurale, questo me lo faccia rosa, che prima era un fienile (i famosi fienili rosa dell’architettura rurale toscana, perchè ovviamente se il fienile fosse in lombardia allora sarebbe necessariamente giallo)
Insieme alle finestre, cioè il “vuoto”, che non a caso rientrano nei cinque pilastri dell’architettura. Ma su questo argomento mi astengo.
Quindi ciò che vediamo oggi è l’interpretazione di quello che si considera “la forma originaria della fabbrica”, cioè clamorosi falsi.
Ad Oporto hanno mantenuto le facciate di tutta la cortina edilizia di rua Cima do Muro e sfondato gli interni, per ricostruire unità abitative in cemento più funzionali senza modificare l’aspetto esteriore e il rapporto con la città: un falso. Se ci capiti è fantastico; io che li ho vissuti prima che li distruggessero, li piango.
La piazza dell’orologio a Praga sembra la mazzetta dei colori pantone, e io di architettura ceca non ne so niente, ma mi sembra inverosimile che prima avesse tutta quella varietà di colori: una bella cartolina per turisti.
Molti dei fregi e delle decorazioni delle architetture del 500 italiane sono stati integrati con altri materiali, ricostruiti dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale, il Castello Sforzesco non è sforzesco manco per il cazzo perchè l’hanno rifatto il Beltrami e il Filarete nell’Ottocento e così via.
Naturalmente ci sono esempi di “buon restauro” e di “cattivo restauro”, di restauro filologico accettabile e di restauro conservativo talebano, ci sono cattivi restauri necessari e buoni restauri sopra le righe. 
Quello che vediamo oggi è l’immagine di quello che pensiamo fosse ieri.
Il nostro rapporto con l’architettura storica è una meravigliosa metafora del nostro rapporto con noi stessi.